mercoledì 20 febbraio 2008

Prima che il gallo canti....


Dopo settimane di intenze trattative, alla fine Berlusconi ha dato il placet per Raffaele Lombardo. "L'unico candidato del centrodestra per la carica di governatore della Sicilia è Raffaele Lombardo. Miccichè è una persona intelligente, sa qual è il posto, cairà".
Così Calderoli al termine di un vertice con la coalizione del Cavaliere.
E Gianfranco Miccichè si ritirerà, accettando i diktat romani? Neanche per "sogno". Sentite cosa scrive sul suo blog: "Io credo in un sogno che può diventare la speranza di tanta gente onesta che vuole una Sicilia diversa!
Nessun sogno potrà essere oggetto di trattativa, altrimenti diventa incubo!
Ma anche i sogni, se diventano veri, devono fare i conti con la realtà. I progetti di rivoluzione vanno costruiti, con calma e forte determinazione. Io ormai ho a cuore solo le sorti della Sicilia, al Governo di Roma ho già dato.
Oggi voglio dare quello che posso alla Sicilia. Occorre credere ed io ci credo".

E voci di corrdoio dicono anche la lista per Miccichè presidente sia già pronta; si chiamerà:“Con Micciche’ per la rivoluzione siciliana”.
Nulla appare scontato dunque, tranne una cosa: il portavoce del centrodestra per la notizia è stato l'ideatore del "porcellum" Roberto Calderoli, che nelle scorse politiche, con la Lega Nord, strinse un accordo di ferro con il MPA. Quindi si rinnova quel patto. Chissà se adesso Casini permetterà a Cuffaro di seguire l'amico di sempre Lombardo!?

Come a dire: dopo un bel piatto di cassola, quasi quasi due cannoli....

domenica 17 febbraio 2008

I 12 punti del programma Democratico




Primo: modernizzare l’Italia.

Pensare ad un’Italia moderna significa scegliere come priorità le infrastrutture e la qualità ambientale.

Il Paese ha bisogno di infrastrutture e servizi che oggi sono ostacolati più da incapacità di decisione che da carenza di risorse finanziarie.



Noi riformeremo la normativa di valutazione ambientale delle opere, con l'eliminazione dei tre passaggi attuali e la concentrazione in un’unica procedura di autorizzazione, da concludere in tre mesi. La priorità va data agli impianti per produrre energia pulita, ai rigassificatori indispensabili per liberalizzare e diversificare l'approvvigionamento di metano, ai termovalorizzatori e agli altri impianti per il trattamento dei rifiuti, alla manutenzione ordinaria e straordinaria della rete idrica.



L’Alta Velocità è il più grande investimento infrastrutturale in corso nel nostro Paese: va completato e utilizzato appieno. Il completamento della TAV metterà a disposizione del trasporto regionale un aumento del 50 per cento delle tratte ferroviarie. Noi le useremo per ridurre il traffico attorno alle grandi città e per dare ai pendolari un servizio finalmente decente.



Secondo: crescita del Mezzogiorno, crescita dell’Italia.

La priorità in materia è quella di portare entro il 2013 la rete delle infrastrutture, a cominciare dal sistema dei trasporti – strade, ferrovie, porti, aeroporti e autostrade del mare – su un livello quantitativo e qualitativo confrontabile con l’Europa sviluppata. E lo stesso vale per servizi essenziali come quelli idrici e ambientali.



La Sicilia ha bisogno di una rete infrastrutturale che le consenta di diventare davvero, con le altre regioni del nostro Mezzogiorno, la naturale piattaforma logistica per gli scambi di servizi, di beni, di persone, di culture in un’area cruciale del mondo.



Terzo: controllo della spesa pubblica.

Proprio l’esperienza di questi due anni ci consente di dire credibilmente ai cittadini italiani che nella prossima legislatura, il banco di prova decisivo per il Governo del Partito Democratico è quello di riqualificare e ridurre la spesa pubblica. Senza ridurre, anzi facendo gradualmente crescere in rapporto al PIL, la spesa sociale aumentandone la produttività e rendendola finalmente quel fattore di sviluppo e di uguaglianza che oggi ancora non è.



Mezzo punto di PIL di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel secondo e un punto nel terzo: il conseguimento di questo risultato è condizione irrinunciabile per onorare l'altro impegno che assumiamo con i contribuenti italiani, famiglie e imprese: restituire loro, con riduzioni di aliquota e detrazioni, ogni Euro di gettito aggiuntivo, derivante dalla lotta all'evasione fiscale. Obbiettivo del Partito Democratico è quello di semplificare il nostro barocco sistema amministrativo, ridurre le sovrapposizioni fra uffici, livelli istituzionali, organismi ed enti pubblici, accorpare in un’unica sede provinciale tutti gli uffici periferici dello Stato.



Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi Comuni metropolitani, ai quali andranno dati poteri reali in settori importanti come la mobilità. Utilizzeremo in modo produttivo il grande patrimonio demaniale, con l’accordo di Stato e Comuni, in modo da abbattere contestualmente di qualche punto il debito pubblico, che potrà così scendere più rapidamente al di sotto della soglia del 100 per cento sul PIL. Libereremo così risorse per almeno un punto di PIL all’anno.



Quarto: Pagare meno, pagare tutti.

Oggi è possibile ridurre davvero le tasse ai contribuenti leali, che sono tanti, lavoratori dipendenti e autonomi, e che pagano davvero troppo. Il risanamento della finanza pubblica realizzato negli ultimi due anni, combinato con questo credibile e concreto programma di riduzione e riqualificazione della spesa e con la prosecuzione della lotta all’evasione, permette per il futuro, anche per quello immediato, di programmare una riduzione del carico fiscale.



Un obiettivo che si traduce, subito, in un incremento della detrazione IRPEF a favore dei lavoratori dipendenti. E dunque in un aumento di salari e stipendi.



Quinto: investire sul lavoro delle donne.

Il modello sociale italiano è oggi afflitto da tre gravi patologie: bassi tassi di occupazione femminile, bassa natalità e alti tassi di povertà minorile. Per questo noi vogliamo trasformare l’enorme capitale umano femminile inattivo in un “asso” da giocare nella partita dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale.



Vogliamo rovesciare il circolo vizioso in un circolo virtuoso. Più donne occupate significa infatti più crescita, più nascite (come dimostra l’esperienza degli altri paesi europei), famiglie più sicure economicamente e più dinamiche e meno minori in povertà.



Sesto: aumentare il numero di case in affitto.

La scarsa disponibilità di case in affitto blocca la mobilità, specie dei giovani e delle giovani coppie. Il terzo delle famiglie che non possiede abitazioni è esposto al rischio di aumenti dei costi degli affitti e alle difficoltà di poter acquistare una casa senza venderne un'altra.



Tra le misure che proporremo per aumentare l’offerta di case in affitto, un grande progetto di social housing realizzato da fondi immobiliari di tipo etico a controllo pubblico, con ruolo centrale della Cassa Depositi e Prestiti, che può mobilitare risorse per 50 miliardi di euro, senza intervento di spesa pubblica, per la costruzione e gestione di 700 mila unità abitative da mettere sul mercato a canoni compresi fra i 300 e i 500 euro.



E una coraggiosa riforma del regime fiscale degli affitti: tassare il reddito da affitto ad aliquota fissa, ferma restando l’opzione per la condizione di miglior favore; e consentire la detraibilità di una quota fissa dell’affitto pagato fino a 250 euro mensili.



Settimo: incremento demografico.

Grande obiettivo programmatico del Partito Democratico è quello di invertire l’attuale trend demografico, aiutando in modo significativo le famiglie con figli, mediante l’istituzione della Dote fiscale per il figlio, proposta dalla Conferenza governativa di Firenze sulla famiglia.



La Dote sostituisce gli attuali Assegni per il nucleo familiare e le detrazioni Irpef per figli a carico, assicura trattamenti significativamente superiori a quelli attuali, si rivolge anche ai lavoratori autonomi.

L'asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia bisogno. Il nostro obiettivo, in collaborazione con le Regioni e gli enti locali, è quello di raddoppiare il numero dei posti entro cinque anni, in modo da assicurare il servizio ad almeno il 20 per cento dei bambini da 0 a 3 anni.

E’ anche con questi strumenti che si sostiene la famiglia, che la si aiuta a svolgere la sua importante funzione sociale.



Dobbiamo fare della nostra una società a misura di bambino, riservando all’infanzia i tempi e gli spazi di cui ha bisogno.



Ottavo: Scuola, Università e Ricerca.

Abbiamo bisogno di “campus” scolastici e universitari. Abbiamo bisogno che per i ragazzi i luoghi di formazione non siano come una fabbrica o un ufficio, ma dei centri di vita e di formazione permanente.

Cento “campus”, universitari e scolastici, dovranno essere pronti per il 2010. Questi saranno a tutti gli effetti delle centrali di sapere per le comunità locali, dei luoghi di formazione e di “internazionalizzazione” per i nostri ragazzi.



Tutti gli studenti delle scuole italiane saranno periodicamente sottoposti a test oggettivi, che serviranno alle famiglie per valutare la qualità dell’apprendimento dei ragazzi e della scuola che frequentano.

Importante sarà l’investimento destinato alla professionalità dei docenti. Ciò significa ad esempio prevedere per gli insegnanti periodi sabbatici di aggiornamento intensivo, così come avviene per i professori universitari.



Quanto alla ricerca, dobbiamo spingere le imprese a investire più risorse, concentrando solo sugli investimenti in ricerca e sviluppo i contributi a fondo perduto.



Nono: lotta alla precarietà, miglior qualità del lavoro e più sicurezza, un diritto fondamentale della persona umana.

In questo senso si tratta di difendere e promuovere standard minimi di civiltà. Ma anche di far avanzare un’idea alta della competizione e della produttività.



Per questo bisogna creare un'unica Agenzia Nazionale per la sicurezza sul lavoro, grazie alla quale potrà essere realizzato un sistema di forti premi per le imprese che investono in sicurezza, agendo sul livello della contribuzione; bisogna, inoltre, avviare la sperimentazione di un compenso minimo legale, concertato tra le parti sociali e il governo, per i collaboratori economicamente dipendenti, con l'obiettivo di raggiungere 1.000 euro mensili.



Troppi giovani sono ora “intrappolati” troppo a lungo, spesso per anni, in rapporti di lavoro precari.

Noi contrasteremo questa situazione, facendo costare di più i lavori atipici e favorendo un percorso graduale verso il lavoro stabile e garantito. Un percorso che preveda un allungamento del periodo di prova e una incentivazione e modulazione del contratto di apprendistato come strumento principale di formazione e di ingresso dei giovani nel lavoro.



Decimo: garantire la Sicurezza.

Far sentire sicuri i cittadini, aumentando la presenza di agenti per strada e anche utilizzando nuove tecnologie è uno dei principali obiettivi programmatici del Partito Democratico.



Per questo, trasferiremo ai comuni funzioni amministrative e vareremo un piano di mobilità interna alla Pubblica Amministrazione di personale civile oggi sottoutilizzato, per impiegarlo nelle attività amministrative di supporto alle attività di polizia. La sicurezza dipende anche dalla certezza della pena. Troppo frequenti sono i casi di condannati per reati di particolare allarme sociale che vengono ammessi a rilevanti benefici di legge senza avere mai scontato un giorno di carcere.



Il “pacchetto sicurezza” approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 ottobre scorso aveva ampliato il numero dei reati particolarmente odiosi, fra questi la rapina, il furto in appartamento, lo scippo, l’incendio boschivo e la violenza sessuale aggravata. E in tutti questi casi prevedeva l’obbligo della custodia cautelare in carcere, il giudizio immediato, l’applicazione d’ufficio della custodia cautelare in carcere già con la sentenza di primo grado e l’immediata esecuzione della sentenza di condanna definitiva senza meccanismi di sospensioni. Su questa linea noi proseguiremo.



Undicesimo: giustizia e legalità

Di innovazione ha bisogno un’altra sfera decisiva nella vita di un Paese e di ogni suo cittadino: quella della giustizia, della legalità. Il Partito Democratico, sia attraverso il codice etico, sia attraverso norme statutarie relative ai comportamenti di suoi iscritti eletti nelle istituzioni, stabilisce indicazioni rigorose in particolare sulla qualità delle nomine di cui i suoi rappresentanti dispongono.



Proporremo, inoltre, norme innovative per la trasparenza delle nomine di competenza della politica. Per ognuna di esse, dovranno essere predeterminati e resi pubblici criteri di scelta fondati sulle competenze; attivate procedure di sollecitazione pubblica delle candidature; infine, pubblicato lo stato e gli esiti delle procedure di selezione. Noi proporremo anche di introdurre nel nostro ordinamento il principio della non candidabilità al Parlamento dei cittadini condannati per reati gravissimi come quelli connessi alla mafia e alla camorra, alle varie forme di criminalità organizzata, o per corruzione o concussione. Il nostro undicesimo grande obiettivo programmatico comprende anche il motivo principale dell’emergenza giustizia: i tempi del processo, sia penale che civile.



Noi porteremo a compimento le riforme avviate negli scorsi anni, come la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile e di quello penale. Ma adotteremo anche provvedimenti amministrativi che possono essere presi immediatamente, per accrescere l’efficienza del sistema giudiziario italiano.

C’è poi il nodo delle intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche. E’ uno strumento essenziale al fine di contrastare la criminalità organizzata e assicurare alla giustizia chi compie i delitti di maggiore allarme sociale, quali la pedofilia e la corruzione. Si tratta di conciliare queste finalità con i diritti fondamentali, come quello all’informazione e quelli alla riservatezza e alla tutela della persona.



Dodicesimo: banda larga in tutti Italia e TV di qualità.

L’effettiva possibilità di accesso alla rete a banda larga deve diventare un diritto riconosciuto a tutti i cittadini e a tutte le imprese, su tutto il territorio nazionale, esattamente come avviene per il servizio idrico o per l’energia elettrica. Noi realizzeremo, a partire dalle grandi città, reti senza fili a banda larga per creare un ambiente disponibile alla gestione di nuovi servizi collettivi.



Più libertà significa superamento del duopolio, oggi reso possibile dall'aumento di canali garantito dalla TV digitale. Per andare oltre il duopolio occorre correggere gli eccessi di concentrazione delle risorse economiche, accrescendo così il grado di pluralismo e di libertà del sistema. La libertà di informazione è un cardine della democrazia, come ci ha insegnato un grande giornalista, che resta nel cuore di tutti gli italiani, Enzo Biagi.



Più concorrenza significa ricondurre il regime di assegnazione delle frequenze ai principi della normativa europea e della giurisprudenza della Corte costituzionale. Più qualità: noi proponiamo di istituire un fondo, finanziato da una aliquota sui ricavi pubblicitari, che finanzi le produzioni di qualità. Dire qualità e dire Italia è la stessa cosa. Più autonomia della televisione dalla politica significa, subito, nuove regole per il governo della RAI. La nostra idea è quella di una Fondazione titolare delle azioni, che nomina un amministratore unico del servizio pubblico responsabile della gestione.


Queste sono alcune delle nostre idee per cambiare il Paese. Questo è il cammino di innovazione che attende l’Italia.

sabato 16 febbraio 2008

Grazie Anna, grazie Rita....




Alla fine il "SI" di Anna Finocchiaro è arrivato:"In Sicilia è possibile rompere il dominio del centrodestra, il cui governo ha mostrato incapacità di cogliere le possibilità dell'isola"
Sarà la candidata del centrosinistra alle prossime regionali. E porterà con se la grande storia della società civile, avvalendosi della collaborazione di Rita Borsellino.

Un ticket vincente, che punterà tutto, finalmente, sulla traparenza della gestione della cosa pubblica e sull'opportunità di rilancio di questa nostra terra occupata e martoriata. Questa volta non ci sarà Lombardo o Miccichè che tenga. Basta voto di scambio, basta politica clientelare, basta notabili e strutture di potere molto spesso ambigue. Hic et nunc, con la consepevolezza che il futuro dipende anche da come andranno le prossime elezioni.
EVVIVA LA SICILIA LIBERA, EVVIVA I SICILIANI CHE CAMMINANO A TESTA ALTA!

.....



Questo post non avrà ne titolo nè commento di sorta. L'"editto di Sofia" forse non si è ancora esaurito. Così prima Travaglio(come faceva notare con solerzia Salvatore) e poi Silvio Berlusconi("«Mi sono battuto perchè Enzo Biagi non lasciasse la televisione, ma alla fine prevalse in Biagi il desiderio di poter essere liquidato con un compenso molto elevato») perdono una grande occasione per tacere.

Le verità che contano, i grandi principi, alla fine, restano due o tre. Sono quelli che ti ha insegnato tua madre da bambino. (da Strettamente personale)

giovedì 14 febbraio 2008

Il bello e il cattivo tempo di Pierferdi....

Mi fido di te....



Niente effetti speciali, niente strutture inchilosate ed inchilosanti. Si è scelto come punto di partezza Spello ed il suo meraviglioso paesaggio, che ci ricorda un paese straordinario, dalle mille risorse umane e naturali. Si è scelta una canzone, Mi fido di te.., che è una poesia di amore e fiducia. E allora proviamo a carbiarla veramente l'Italia; facciamolo tutti assieme, perchè sia un paese che unisce e che tollera le differenze, ospitale e sicuro, solidale, gioioso e responsabile...

mercoledì 13 febbraio 2008

Rieccoti Silvio...rialzati Italia!!!



Nella vita tutti sono utili, nessuno indispensabile. Almeno così credevamo noi comuni mortali fino a poche ore fa. E invece no: per sua stessa ammissione, in terza persona: "Silvio Berlusconi è indispensabile!"
Inizia così il Cavaliere a "Porta a porta"...
"Sono sicuro di vincere. I sondaggi d'altronde lo dicono chiaramente. Il Popolo delle Libertà governerà il paese!"
Oggi Berlusconi avrebbe dovuto(il condizionale è d'obbligo) presentare il programma elettorale(una bozza almeno), dare agli italiani un valido motivo per votarlo. Questo fantomatico programma non c'è stato e forse non ci sarà mai. Quasi due ore a dire cosa non hanno fatto gli altri. E la "politica del fare"?
"Aboliamo l'ICI sulla prima casa!"- troppo vecchia come favoletta, ormai non ci crede nessuno.
"La lotta all'evasione della sinistra è stata troppo estrema, quasi ad incutere paura. Questo frena gli investimenti"- è chiaro, avremmo dovuto con gentilezza bussare, essere accolti con un sorriso dagli evasori e chiedere(senza impegno) se gentilmente ci restituiva quei soldi che non ha pagato. Facciamo così: si tenga i soldi che deve allo stato; anzi, li reinvesta...
Era sereno oggi il Cavaliere, seduto comodamente in quello che per anni è stato il suo studio. Si trova a proprio agio a chiacchierare con Bruno Vespa. Ma scherza anche volentieri con quel comunista di Sansonetti e ammicca a De Bortoli. E così, quando quest'ultimo gli fa notare che con il governo di centrodestra il debito pubblico è aumentato, e di molto, lui inizia con la storia del "mi son fatto da solo, sono sceso e risceso in campo, l'Italia ha bisogno di me"...
Lo studio è pieno di fotografi e cronisti; per nessuna ragione al mondo si perderebbero Berlusconi che per la quinta volta ri-scende in campo. Ha più presenze lui che Zoff ai mondiali. A soli 72 anni (ma "io me ne sento 35"), l'assoluta novità politica, è ancora lì, più giovane di prima, con le stesse idee e la stessa squadra di 14 anni fa. Anzi no. Stavolta Casini tergiversa più del solito, ma Silvio non si fa intimidire:"Casini ormai lo conosciamo. Conosciamo lui e il suo partito. Noi abbiamo rinunciato al nostro simbolo, non vedo perchè l'UDC non debba farlo!? Non sono nuovi a questo tipo di situazioni. Già prima della scorsa campagna elettorale avvennero cose simili". - In sostanza: tratto meglio Mastella e Dini, voltagabbana della storia recente, tanto so che il fido Casini verrà a rimpinguare le fila del grande Partito del Popolo delle Libertà.
Poi il clou, in chiusura di puntata, per la gioia del divertitissimo Bonaiuti, Vespa invita il Cavaliere a risedersi su quella scrivania diventata famosa per il "patto firmato(e mai rispettato) con gli Italiani". E Berlusconi ci va volentieri; quella scrivania è fatta su misura per lui, gli calza a pennello. E dalla sua postazione preferita, lascia il messaggio di chiusura, più inquietante che mai: "Costruiremo gli Italiani".

Come dire, il Cavaliere compie l'ennesima trasformazione politica: diventa Frankenstein! Li costruirà in laboratorio o magari ha già un progetto, in puro stile Milano 2...?! Gianfranco Fini(nella foto)pare aver capito poco...

domenica 10 febbraio 2008

L’Italia non si deve rialzare.L’Italia è in piedi. Sono in piedi gli italiani.E’ la politica che si deve rialzare.


Da Spello, in Umbria, questa mattina, Walter Veltroni ha dato inizio allo straordinario cammino democratico che coinvolgerà l'Italia intera.
Questo il "DISCORSO PER L'ITALIA":

Cominciare da qui, da questa piazza, da questo borgo, con alle spalle questo magnifico panorama italiano, è un modo per dire a cosa pensiamo: non al destino di questo o quel leader, non a questo o quel partito, ma al destino dell’Italia, al nostro Paese, alla sua struggente e meravigliosa bellezza e alla sua storia grande e tormentata, alle gravi difficoltà del suo presente e alle straordinarie potenzialità del suo futuro.
E’ un modo per metterci in sintonia con quelle che sono state chiamate le correnti profonde della storia. Perché tutti noi viviamo, giorno per giorno, sulle increspature superficiali, quelle sulle quali si scatenano le tempeste e poi si distendono le bonacce. Ma è solo se scendiamo più in profondità, che possiamo provare a capire dove il mare della storia ci sta portando.
Le correnti profonde della storia non sono fenomeni fisici, anonimi, che ci sovrastano e ci schiacciano. Sono vite concrete di donne e uomini in carne e ossa, sono i nostri padri e i nostri nonni, che attraverso di noi congiungono i loro giorni a quelli dei nostri figli e dei nostri nipoti. Sono la memoria che si fa speranza, il passato che si apre al futuro e attraversando il presente lo riempie di senso.
Sembra di vederla, da quassù, la storia straordinaria e dura, aspra e sofferta, del nostro popolo, del nostro Paese. Un popolo che per secoli ha lavorato la terra, l’ha come addomesticata, addolcita, umanizzata. Ed ha impreziosito le straordinarie bellezze naturali d’Italia – dalle coste del Mediterraneo, attraverso le colline e la grande pianura, fino alle Alpi – con un immenso tesoro di borghi e castelli, di templi e cattedrali, di ville e palazzi.
Nessun popolo della terra ha ereditato tanto dai suoi progenitori. E nessun popolo, meglio del nostro, è messo nelle condizioni di capire come lo sviluppo economico non solo non sia in contrasto, ma possa e debba sposarsi con la qualità della vita.
Troppo a lungo crescita economica e salvaguardia dell’ambiente, espansione urbanistica e tutela del patrimonio artistico, perfino lavoro e cultura, occupazione e scolarizzazione, sono stati pensati come valori contrapposti, come se l’uno fosse una minaccia per l’altro.
E invece, oggi abbiamo compreso che quei valori sono tali solo se promossi insieme. Lo sviluppo contro l’ambiente non è sviluppo. Ma anche viceversa: una difesa dell’ambiente che si riduca alla moltiplicazione di vincoli e veti contro la crescita è sterile e perdente. E invece, un nuovo ambientalismo, un ambientalismo positivo, un “ambientalismo del fare”, come lo abbiamo chiamato, inserito in una nuova cultura della sostenibilità e della qualità della vita, può diventare un formidabile volano di sviluppo. Prendiamo il sole: non è solo un’alternativa al petrolio per la salute della Terra, ma uno dei principali traini della crescita di domani.
Questa è la modernità che ci piace. Quella che unisce l’incremento del Pil alla qualità della vita e alla tutela della natura.
In un mondo che si va facendo sempre più piccolo e nel quale miliardi di donne e uomini, pur tra mille contraddizioni e tra enormi disuguaglianze, si vanno finalmente affacciando da protagonisti del nuovo contesto globale, l’Italia potrà restare protagonista solo se saprà e vorrà nutrire l’ambizione di puntare al primato nello sviluppo di qualità. Anche per questa via, la nostra memoria può trasformarsi nella nostra speranza.
La qualità è la nostra unicità. E’ la sola cosa che nessuno può clonare o delocalizzare. La qualità è l’Italia. E l’Italia è la qualità.
Non bisogna aver paura del nuovo. Il futuro è l'unico tempo in cui possiamo andare. Ma il nostro paese, i suoi meccanismi politici ed istituzionali, sembrano temere le cose nuove. Sembrano paralizzati dal demone del conservatorismo. Sembrano pensare che il mestiere di chi può decidere sia solo quello di rinviare; il mestiere di chi ha il potere sia solo quello di usarlo per mettere veti, paletti, bloccare sul nascere quella meraviglia che è il nuovo. Il nuovo che sorge dal talento, dalla scienza, dall’energia delle donne e degli uomini.

Il nostro Paese deve tornare ad avere voglia di futuro.

Una nuova generazione di italiani chiede una Italia più aperta e dinamica, più giovane e mobile.

L'Italia del nuovo millennio, non l'Italia della fine del secolo precedente.

L'Italia dell'ascolto e della ricerca, l'Italia del rigore e della responsabilità, l'Italia dei doveri e non solo dei diritti.

L'Italia della mobilità sociale e non dei corporativismi asfissianti.
L'Italia della ricerca, della scienza e della tecnologia e non degli steccati ideologici.
L’Italia della legalità e non della furbizia.
L'Italia che ritrova i valori, il senso della sua grandezza e l'orgoglio di sé.


Perché una comunità umana non vive senza i valori, senza le ragioni che illuminano il cammino collettivo e forniscono un senso alle cose.
Non possiamo essere una società che conosce “il prezzo, ma non il valore delle cose”. Una società arida, in cui rapporti umani sono puramente strumentali e si vive schiacciati dall’egoismo, dall’insicurezza e dalla solitudine.
Oggi il Paese, chi vive e parla con gli italiani lo sa, sembra cupo, impaurito. Sembra aver perso quella certezza che domani sarà meglio di oggi. Certezza che è l'energia vitale di una comunità. L’energia che si ritrova nei racconti di quella generazione che ha ricostruito l'Italia dopo la guerra.
I contadini speravano e sapevano che il loro figlio non aveva un destino obbligato, che un giorno volendo avrebbe potuto andare a cercar fortuna in città, e diventare un operaio, un impiegato, un insegnante.
Gli immigrati speravano e sapevano che loro o i loro figli un giorno sarebbero tornati nel loro paese sereni e rispettati per il lavoro svolto lontano da casa.
Operai ed artigiani di talento mettevano su laboratori e poi fabbriche, individuando originali tecniche e nuovi prodotti. E cambiavano così la loro condizione sociale.
Il Paese si rimboccava le maniche, faticava ma sorrideva al futuro che stava costruendo.
Il Paese correva, animato da fiducia e da uno spirito solidale, non bloccato dalle divisioni politiche e ideologiche, assai più drammatiche, allora, di quanto non siano oggi.
E' quello spirito che dobbiamo ritrovare.
L'orgoglio di essere italiani, la voglia di correre, di rischiare, di conquistare nuove frontiere e nuove possibilità.
Mai come oggi la scienza ci ha dato la possibilità di migliorare la nostra vita.
Ogni anno la sua durata media si allunga di qualche mese. Gli italiani che cercavano le foto della famiglia tra le macerie delle case bombardate vivevano in media poco più di sessant’anni. Oggi viviamo vent’anni di più, e i dati demografici dicono che nel 2017 gli ultraottantenni saranno quasi raddoppiati.
La nostra vita media è più lunga perché ci curiamo meglio, perché c'è meno povertà, perché nonostante ciò che si pensa l'acqua, l'aria e il cibo sono più controllati.
Viviamo più a lungo perché viviamo meglio.
So che dire questo contrasta un po’ col luogo comune per cui ieri è sempre meglio di oggi. Ma è proprio di questo che ci dobbiamo liberare.
Non restiamo con la testa rivolta all’indietro, ad un passato del quale dobbiamo riconoscere la grandezza e dal quale, come abbiamo detto, possiamo trovare stimoli. Ma invece viviamo pienamente il presente e volgiamo lo sguardo al futuro.
Oggi abbiamo immense possibilità: di sapere, di conoscere, di viaggiare e dialogare, di scoprire.
Eppure. Eppure sembriamo smarriti. Perché abbiamo perso il senso delle cose. Perché ci hanno detto per anni che gli altri sono solo concorrenti, persino nemici. Che il destino dell'altro non ci riguarda. E così abbiamo smarrito la voglia collettiva di cercare, di rischiare, di cambiare.
La società italiana nel tempo del suo possibile massimo dinamismo sembra ferma, inchiodata da spiriti di conservazione, da logiche di veto. Degli uni e delle altre una certa politica è la massima responsabile.
Una politica che nello stesso giorno in cui un uomo che fa onore all’Italia, Umberto Veronesi, indicava vie nuove per il futuro della lotta al cancro, dava un triste spettacolo di sé, con quegli schiamazzi e quegli sputi nell’Aula del Senato che hanno dato un’immagine dell’Italia che non meritiamo e non vogliamo più vedere. E state certi che quel senatore troverà ospitalità in qualche lista.
Quelle urla sono la più brutta espressione di una politica senza radici nella grande storia italiana, ripiegata su se stessa, priva della voglia di rischiare, di conoscere le sfide brucianti di un tempo nuovo. Dell’incapacità di fare ciò per cui il Presidente Napolitano non ha mai smesso di spendere energie e saggezza: mettere al primo posto il bene del Paese, al primo posto l’amore per le istituzioni. Quello che nelle ultime settimane avrebbe dovuto far scegliere non la propria presunta convenienza, ma la riscrittura delle nostre regole comuni: una legge elettorale per la stabilità e la riduzione della frammentazione del sistema politico, una sola Camera legislativa, la riduzione del numero dei Parlamentari e dei costi della politica.
Si è scelto altro. E noi siamo pronti.

E' all'Italia vera, che noi parliamo.

Verrà presto, tra solo sei giorni all’Assemblea Costituente del Partito democratico, il tempo di tornare a parlare il linguaggio asciutto e severo dei programmi. Il tempo di spiegare e chiarire le nostre proposte, e di ribadire ad esempio che oggi è possibile ridurre le tasse, perché la lotta all’evasione ha dato risultati. Io rimango della mia idea: pagare meno, pagare tutti. Oggi, grazie al lavoro del governo Prodi, possiamo fare quello che non è mai stato fatto. Quello, gli italiani lo sanno, che è stato ogni volta annunciato ai quattro venti, ma non realizzato.
Verrà il tempo per dire agli italiani ciò che è nostro dovere dire: questo è il nostro progetto per cambiare il Paese, queste sono le cose che faremo per fronteggiare i problemi e trovare soluzioni.

E lo potremo dire guardando negli occhi l’Italia, perché abbiamo deciso, unilateralmente, di correre liberi. Liberi, più che soli.
Liberi di poter finalmente non mediare parole, non attenuare cambiamenti possibili, non rinunciare a ciò che si crede giusto.

Guardiamo negli occhi l'Italia e le diciamo: comincia un tempo nuovo.
Il tempo del coraggio e del cambiamento. Il tempo della decisione e della responsabilità.
Gli occhi degli italiani hanno visto troppo odio e divisioni in questi anni.
Unire l'Italia, restituirle forza e orgoglio di sé.
Ritrovare quel desiderio del nuovo che è l'energia vitale di una comunità.
Chi, più di noi, più degli italiani, può unire passato e futuro?
L'Italia deve essere unita. L'odio e le divisioni di questi anni ci hanno fatto perdere occasioni importanti.
Non si è voluto capire ciò che è naturale ad esempio nelle grandi democrazie anglosassoni: che è necessario scrivere insieme le regole del gioco per poter poi competere per il governo nella distinzione di programmi e valori. Sempre nella consapevolezza che c’è una cosa più importante di ogni altra: l’interesse generale, il bene dell’Italia e degli italiani.
Ora bisogna rimettersi in cammino.
Perché non ci sono due Italie separate da muri invisibili. Né è giusto mettere sulle regioni, sulle città, sulle case e persino sulle teste degli italiani delle bandierine di colori diversi.
Gli italiani non “appartengono” a nessuno, se non a se stessi. Appartengono alla propria coscienza, alla propria mente, al proprio cuore. Ed è così che decideranno, il 13 aprile.
Di una cosa sono certo: gli italiani vogliono uscire dalla confusione, dall’instabilità e dall’immobilismo. Vogliono una stagione nuova.

L'Italia deve lasciare l'odio e scegliere la speranza.
L'Italia deve lasciare la paura e scegliere il nuovo.

La memoria impressa nel paesaggio italiano, lo splendido paesaggio che sta alle mie spalle, racconta la storia dell’Italia delle cento città: una storia di eroiche lotte per la libertà e, insieme, di crudeli guerre fratricide. Firenze contro Siena. E dentro Firenze, guelfi contro ghibellini. E guelfi neri contro guelfi bianchi, via via frazionando e frammentando.
Come se la libertà non potesse affermarsi se non contro l’unità. E come se l’unità dovesse fatalmente comportare il sacrificio della libertà. Una frattura mai del tutto ricomposta e che troppe volte è costata all’Italia il prezzo della subalternità ad altre potenze, a umilianti domini stranieri.
E invece è proprio quando si sono mossi spinti dal desiderio di unità, che gli italiani hanno fatto le cose più grandi.
E’ così che una terra divisa in piccoli regni, granducati e domini stranieri è diventata una nazione: grazie a chi immaginò ciò che non esisteva, a chi lottò per realizzarlo.
E’ così che l’Italia è uscita dal buio della dittatura, dalla vergogna delle leggi razziali, dall’abisso della guerra : grazie a donne e uomini che ebbero il coraggio e la moralità di mettere la libertà del loro Paese davanti a tutto, davanti alle loro stesse vite.
Uniti sotto il tricolore, sotto la bandiera italiana. Uniti nella Resistenza: quella attiva dei partigiani, quella silenziosa dei deportati, quella operosa dei tanti giusti che seppero aprire la porta a chi cercava aiuto.
L’altro giorno, la sera stessa in cui abbiamo presentato il nuovo sito internet del Partito democratico, è arrivata una mail. Poche righe, a raccontare un pezzetto della nostra storia. “Ricordo con grande nostalgia – dice la lettera – quando mio nonno mi portava nella stalla a vedere i buoi, io avevo quattro cinque anni. Mi raccontava tante storie, ma una la ricordo molto bene. E' quella di quando lui aveva nascosto nella stalla un gruppo di partigiani che erano sfuggiti ad un rastrellamento fascista e aveva messo a repentaglio la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Però l'aveva fatto e ancora ricordo che me lo diceva come se fosse la cosa più ovvia. Di fronte alla difesa della libertà e della propria patria non c'è esitazione, si fa cosa si deve fare e basta. Non l'ho mai ringraziato abbastanza per queste storie, certo che ancora oggi che ho 51 anni le ricordo volentieri, sono parte di me stesso me le porto dentro di me. Vorrei che il Partito Democratico avesse questi sapori veri, autentici”.

L’Italia è questo. L’Italia è andata avanti così. Così è diventata una grande democrazia, uno dei pilastri della nuova Europa unita, dell’utopia di Altiero Spinelli divenuta realtà.
L’Italia ha costruito il meglio, ha dato le prove più belle di sé, quando ognuno, da chi aveva le più grandi responsabilità alla persona più semplice, ha saputo curare più di ogni altra cosa l’interesse nazionale, ha saputo fare nel modo più naturale, “come fosse la cosa più ovvia”, ciò che sentiva giusto, ciò che serviva davvero al Paese.
E’ così, unita, che l’Italia è uscita dagli anni di piombo. Avevano il tricolore in mano, quei lavoratori che la mattina del 16 marzo del ’78 riempirono le piazze d’Italia contro gli assassini che aveva lasciato a terra cinque ragazzi delle forze dell’ordine e avevano portato via un uomo di stato e di dialogo come Aldo Moro. Con il senso di quella unità il terrorismo è stato sconfitto.
E’ di uno spirito così che il Paese ha bisogno. La priorità sono gli interessi nazionali, non quelli di parte.
Oggi come ieri. Oggi che, come un albero sotto il peso della neve, l’Italia appare piegata, oppressa, legata da nodi strutturali che nessuno sembra in grado di sciogliere.
Sono trascorsi ormai quasi vent’anni dal crollo del Muro di Berlino e dalla crisi definitiva della politica ideologica. L’Italia ha conosciuto l’alternanza al governo e la competizione bipolare tra centrodestra e centrosinistra. Ma non è ancora riuscita a liberarsi dai fantasmi di quella stagione.
Da quasi quindici anni, questi due schieramenti si sono alternati alla guida del Paese. Hanno fatto cose buone e meno buone. Ma nessuno dei due è mai riuscito a vincere le elezioni per due volte di seguito. Ogni volta la delusione per chi stava al governo ha spinto gli elettori a premiare l’opposizione.
Il bipolarismo che abbiamo conosciuto in questi anni si è dimostrato incapace di uscire dallo schema dello scontro ideologico. L’ideologia non c’era più, ma è come se la politica non fosse capace di rinunciare ai suoi cascami: la cultura del nemico, il dualismo manicheo, la demonizzazione dell’avversario, a volte un vero e proprio sentimento di odio, almeno predicato e ostentato, nei confronti della parte avversa.
“Non faremo prigionieri”, è la frase celebre di un ministro della Difesa: anno del Signore 1996. L’Italia non era in guerra con nessuno, per fortuna, quindi non c’erano nemici alle porte da minacciare. L’Italia stava entrando nel bipolarismo politico, mimando i toni e i linguaggi di una guerra civile. Due alleanze sempre più sterminate, accomunate più dalla eccitata volontà di battere l’avversario, che da un chiaro programma di interventi incisivi e netti sui mali strutturali del Paese.
Non sorprende che in questi anni nessuno di questi mali sia stato affrontato in modo risolutivo: non il debito, non lo squilibrio Nord-Sud, non i ritardi delle infrastrutture, non l’inefficienza della pubblica amministrazione.
Le cose buone che pure sono state fatte sono state fatte quasi sempre sull’onda dell’emergenza, a cominciare dalla spettacolare rimonta che all’Italia governata da Romano Prodi, nel tempo del primo Ulivo, nella stagione più feconda della recente storia italiana, consentì di centrare l’obiettivo dell’ingresso da subito nell’Euro.
Ma la politica in questi anni non è riuscita a imprimere forza, a portare avanti quelle grandi riforme, quelle liberalizzazioni e modernizzazioni di cui l’Italia ha bisogno.
Non sorprende allora che i cittadini stiano scoprendo una crescente insofferenza nei confronti di un sistema politico roboante e inconcludente, invadente e impotente, costoso e inefficiente.
Una politica che divide il Paese, invece di unirlo per far fronte ai problemi di tutti. Una politica che divide non solo tra destra e sinistra, ma anche tra Nord e Sud, tra italiani e immigrati, tra dipendenti e autonomi, tra padri e figli, tra laici e cattolici.
La stragrande maggioranza degli italiani è stanca di una politica come questa, che crea una conflittualità esasperata e la usa come alibi per non affrontare i veri problemi del Paese: come far ripartire la crescita economica, come rimettere in moto l’ascensore della mobilità sociale, come valorizzare talenti e meriti, allargando gli spazi di libertà delle persone, come ridare potere di decisione alla democrazia.
Gli italiani non ne possono più di piccoli interessi e di vedute ristrette. Riconoscono le soluzioni semplicistiche offerte a problemi complicati. Capiscono quando poche minoranze cercano di imporre la propria visione come fosse una verità indiscutibile, senza curarsi del fatto che così si alimentano solo divisioni, contrapposizioni, conflitti che non portano a nulla.
Gli uni contro gli altri armati. Sempre e comunque. Costi quel che costi.

Gli italiani vogliono altro. Meritano altro. Perché sono altro.
L’Italia non si deve rialzare.
L’Italia è in piedi. Sono in piedi gli italiani.
E’ la politica che si deve rialzare.


Gli italiani sono i milioni di donne e di uomini che ogni giorno faticano e lavorano, e che a volte per quel lavoro, con indosso una divisa o addirittura una tuta da operaio, rischiano la vita.
Gli italiani sono gli imprenditori che hanno le idee, che hanno il coraggio di spendersi in prima persona per vederle realizzate, che scelgono la strada della qualità e dell’innovazione, che mettono tutta la tenacia e tutta la capacità di lavorare per ore e ore ogni giorno nel progetto in cui credono.
Gli italiani sono i ragazzi che studiano, che investono su stessi, che non si perdono d’animo anche quando si accorgono che per salire devono spendere energie cento volte di più di altri, perché conta ancora troppo dove si nasce e perché l’ascensore sociale che l’intelligenza e la preparazione consentirebbe loro di prendere non funziona.

Gli italiani sono gli insegnanti che, nonostante stipendi e condizioni inadeguate, non rinunciano a vedere il loro mestiere come una missione, perché sanno che sono loro a poter fare la differenza nella vita di un bambino, di un ragazzo, soprattutto lì dove le situazioni sono più difficili, dove la vita è più dura.

Gli italiani sono le persone che si spendono volontariamente per chi è più debole e ha bisogno, che si prendono cura degli altri, che sanno che questo riempie la vita molto più che avere in tasca l’ultimo modello di telefonino o apparire per pochi minuti in qualche programma televisivo.
Gli italiani sono le persone che tengono duro in silenzio e con dignità, che magari fanno mille sacrifici per mantenere la loro famiglia, ma non rinunciano all’onestà, al rispetto delle leggi, all’accoglienza, alla solidarietà verso il proprio vicino così come verso chi arriva da un paese lontano.
Questa fatica, queste speranze, questa generosità non meritano di scomparire sotto la nuvola di parole e il rumore dello scontro politico.
Luoghi meravigliosi come questo, le nostre città, ogni nostra comunità, non meritano di essere divisi da steccati politici e poi definiti da etichette o bandierine colorate.

Per questo è nato il Partito Democratico. Per unire l’Italia.
Per provare a superare una volta per sempre la politica faziosa e settaria.
Per raccogliere le energie migliori del Paese attorno ad un programma di riforme che affrontino i mali strutturali che lo affliggono da troppo tempo.
Per dare alla politica un respiro nuovo.


La politica è impastata di tre ingredienti. C’è la lotta per il potere, per l’affermazione di sé o della propria parte contro le altre. Una lotta che usa la forza come l’astuzia, lo scontro in campo aperto come l’intrigo.
Forse è impossibile che la politica si liberi del tutto di questa dimensione. Ma guai se la politica si riduce solo a lotta per la conquista e la conservazione del potere. Guai se dimentica che il potere è un mezzo e non un fine. Così la politica finisce per perdere il suo senso, il suo scopo. Per diventare, talvolta, prepotente e corrotta. E finisce per annullare le due altre dimensioni, che sono invece la parte bella della politica, quella che può far innamorare, che può riempire di senso una vita intera.
E’ la politica intesa come lotta per grandi principi e grandi valori: la libertà, la giustizia, la pace. Ideali grandi, per i quali si può dare la propria vita, donandola ogni giorno nella fatica dell’impegno quotidiano, o addirittura accettando di perderla, pur di non tradire in nome della vita ciò che alla vita dà significato.
Ed è la politica come impegno concreto per risolvere i problemi quotidiani delle persone, per rendere più lieve la vecchiaia, la malattia, la solitudine, per incoraggiare la speranza di una giovane coppia che pensa di mettere al mondo un figlio ma prima deve risolvere la sua prima preoccupazione, quella della casa; per aumentare le opportunità per chi vuole mettere alla prova i propri talenti.
La politica è rapporto con la vita reale dei cittadini.
La politica è ben poco, se non capisce la preoccupazione di una madre e di un padre che si domandano che tipo di educazione e di ambiente civile riusciranno a garantire al proprio bambino.
Se non sente sua l’ansia di un anziano pensionato costretto a fare i salti mortali quando a fine a mese arriva la bolletta del riscaldamento.
Se non dà risposta alla domanda angosciata di un operaio che vuol sapere se sono vere le voci che annunciano la chiusura della sua fabbrica perché la produzione si trasferisce altrove, in un paese dove si possono pagare salari ancora più bassi e preoccuparsi ancora di meno delle condizioni di sicurezza.
Se non vede l’inquietudine di un imprenditore che per fare il proprio lavoro si trova a dover lottare contro mille difficoltà: le complessità burocratiche, il peso fiscale, l’assenza delle infrastrutture, con uno Stato che spesso sembra essergli nemico.
La politica è miope, non riesce a guardare lontano, se si preoccupa solo di chi ha già garanzie e trascura gli interrogativi e la vita di un giovane laureato che non sa che fare, se provare a vincere un dottorato di ricerca e continuare a studiare, a fare quel che gli piace e per cui si sente portato, oppure essere realista e cercarsi subito una qualsiasi occupazione, anche precaria, anche sottopagata. Costretto a scegliere una vita, quella della precarietà, che è un furto di futuro. Per un’intera generazione.
La politica è miope se non capisce che un bambino disabile, autistico o down, è la creatura al mondo che ha più bisogno di avere la società vicina, di sentire la comunità solidale. Se non capisce che c’è una spesa pubblica che non può mai essere tagliata: quella per loro.
Nessuna di queste persone si aspetta che un governo possa risolvere tutti i loro problemi. Ma ognuno di loro, giustamente, chiede ascolto, chiede attenzione, rispetto, e vuole avere la percezione concreta che qualcuno i suoi problemi li sta affrontando davvero.
Il Partito Democratico nasce per questo. Per far riamare la buona politica, quella che in uno straordinario giorno di ottobre tre milioni e mezzo di persone hanno animato con al loro passione, con al loro partecipazione.
Il Partito democratico nasce per dare alle donne e agli uomini e ancor più alle ragazze e ai ragazzi del nostro Paese la certezza che se vogliamo, insieme, noi possiamo cambiare la politica e cambiare l’Italia.

La scelta è tra passato e futuro.
Dobbiamo credere in ciò che l’Italia può essere.


Conosciamo le sfide che abbiamo di fronte. Ciò che ci ha impedito di vincerle, nella legislatura che si è appena traumaticamente conclusa, non è stata la mancanza di politiche valide, e nemmeno di donne e uomini capaci. E’ stata la divisione. Una politica divisa si è dimostrata troppo piccola di fronte alla grandezza delle sfide.
Per questo il Partito Democratico ha deciso di rompere il vecchio schema politico, quello delle grandi alleanze pensate solo per battere l’avversario, e di aprire la strada ad un bipolarismo nuovo, fondato sul primato dei programmi e sulla garanzia della loro attuazione.
Noi ci presentiamo agli italiani con una chiara proposta di governo: un programma, una leadership, una squadra coesa e affiatata.
Lo state vedendo. Dopo la nostra scelta tutto si è messo in movimento. Anche nell’altro campo. Ma guardate bene quel che succede nelle loro file: sono preoccupati di “come” vincere, non del “perché” vincere. Di come organizzarsi meglio, non di cosa offrire di nuovo all’Italia, di cosa fare di nuovo per gli italiani.
D’altra parte hanno già governato l’Italia per sette anni, e propongono solo di tornare a farlo, esattamente come prima.

Noi vogliamo voltare pagina.
Noi diciamo: non cambiate un governo, cambiate l’Italia.
Cominciamo. Cominciamo a farlo insieme. Trasformiamo l’Italia.

Possiamo essere la generazione di italiani alla quale domani i nostri figli e i nostri nipoti guarderanno con orgoglio dicendo: “hanno fatto ciò che dovevano, l’hanno fatto pensando a noi”.

Non toccherà certo solo a me. Non sarò, non sono solo io, a credere nel cambiamento, a lottare per realizzarlo, a voler fare le cose necessarie.
Tocca a noi. Tocca a milioni di italiani.
Dipende da noi, quello che possiamo fare insieme. Quello che insieme faremo.
Una Italia moderna, serena, veloce, giusta.
Si può fare.
Questi due mesi ci metteremo in viaggio, toccheremo tutte le 110 province italiane, tutta la bellezza e la meravigliosa diversità del Paese.
Questi due mesi saranno il modo più appassionante che abbiamo per far vivere le nostre speranze e dare corpo ai nostri sogni.
Non sono le speranze e i sogni di pochi.
Sono le speranze e i sogni di milioni di persone, che insieme cambieranno l’Italia.


La speranza, il sogno: parole che alcuni giudicano ingenue, astratte, poco adatte alla politica e alle sue esigenze di realismo.
Ma “speranza” vuol dire immaginare qualcosa che non c’è e impegnarsi per renderla possibile. Cosa di più bello nella vita?
La speranza, la fiducia nel futuro, è il motore del cambiamento che serve all’Italia.


E’ per questo che io mi candido. Non per ricoprire una carica.
E vi chiedo, nei prossimi mesi, di pensare non a quale partito, ma a quale Paese.
Facciamo un Paese grande e lieve.

Una Italia in cui non si muoia per lavorare. In cui studiare e intraprendere sia facile. In cui le donne e gli uomini ritrovino la voglia di viaggiare, insieme e sicuri, verso il futuro. In cui la politica riscopra il coraggio di rischiare il nuovo.

E forse, un giorno, ricorderemo che qui, oggi, in una bellissima domenica italiana, tutto è cominciato.

Al voto al voto....


Signore e signori, si alza il sipario, che lo spettacolo cominci.

giovedì 7 febbraio 2008




E' nostro dovere crederci; è un nostro dovere morale provarci; rischiando, con coraggio; cercando di pensare che ciò che eravamo in passato sarà una lezione, un arco teso verso quello che faremo. Una nuova stagione, utopie dei giorni lunghi, l'audacia della speranza... Donne e uomini che, insieme, vogliono provarci; provare a cambiare e a cambiarsi, perchè il primo cambiamento deve avvenire dentro noi stessi. "Siate voi stessi il cambiamento che vorreste vedere nel mondo..."
Possiamo riuscirci? è ancora lecito per noi sperare in qualcosa di migliore?
YES, WE CAN....
Questo il mio primo discorso da segretario del Partito Democratico di Pozzallo, che riprende stralci di discorsi di Barack Obama e Walter Veltroni:


Care democratiche cari democratici,
finalmente anche a Pozzallo, democratici e riformisti hanno una casa comune.
Oggi in tutta Italia nascono i Circoli cittadini del Partito Democratico. Ed anche qui, oggi, si è aperta una porta di speranza, per chi ancora crede che ci possa essere una politica nuova, che metta l’uomo al centro e che presti attenzione ai problemi reali della gente e che sappia altresì ascoltare chi non ha gli stessi nostri ideali. Un partito che nasce dal confronto e dalla ricerca del dialogo.
La possibilità (e vi ringrazio per avermela concessa) di diventare Segretario, è il segno tangibile che il Partito Democratico che oggi ufficialmente qui fondiamo, nasce con nuovi paradigmi e nuovi modelli. E’ infatti un fatto nuovo, se volete anche inusuale che alla guida di un circolo cittadino vi sia un giovane, per di più proveniente dalla cosiddetta società civile. Ed è sotto gli occhi di tutti che il Partito Democratico ha voluto fare dell’alternanza di genere un asse portante della propria base politica. Oggi 18 donne faranno parte della nuova classe dirigente pozzallese. Oggi più di 100 donne, in tutta la provincia, possono con onore dire “io ci sono e voglio impegnarmi”.
Si tratta di una dura sfida. Sciogliere due grandi partiti(DS e Margherita) ed innestare la società civile, che è linfa vitale per la politica del futuro, non è certo cosa da poco. Ma i democratici, con convinzione, hanno accettato di misurarsi, per cercare obbiettivi comuni e guardare in faccia il cambiamento. Per far ciò ci vuole pazienza e coraggio; per fare ciò ci vuole quella che Barack Obama, candidato democratico alla presidenza degli stati uniti, chiama “The Audacy of Hope”, l’Audacia della speranza. Occorrono utopie dei giorni lunghi.
Ci collochiamo saldamente, nello scenario politico attuale, nel centrosinistra. Ci vuole un forte e radicato senso di appartenenza, è vero; ma io non sono fra coloro i quali credono in un rigido immobilismo politico. Oggi non possiamo permetterci più gli steccati di un tempo. Molte volte mi è accaduto, conversando con la gente, di accorgermi e pensare che forse la politica ha bisogno meno di aggettivi che distolgono da intenti e finalità che possono anche essere raggiunte da chi non si definisce o identifica con ciò in cui io credo e mi identifico. In questa porzione di pensiero che ci avvicina va ricercato il comune sentire, per questo dico di abbattere gli steccati, senza aver paura di essere frainteso. Nessuno qui pretende che si faccia un’opera di identificazione tra la grande storia del pensiero democratico, cui per tradizione appartengo, ed un’appartenenza importantissima com’era quella socialista: non era socialista Gandhi quando cambiò l’India, quando insegnò al mondo il valore della non-violenza; e non era socialista La Pira quando si occupò delle attese della povera gente; come non lo era Martin Luther King quando portò milioni di neri a conquistare i loro diritti; non lo era il grande giornalista Terzani o Enzo Biagi, quando coinvolti nella storia in prima persona portavano il loro naso perché noi annusassimo, i loro occhi perché noi potessimo guardare. Non sono di sinistra solo se mi definisco così, se appartengo ad un partito di quell’area:
- Sono di sinistra se di fronte alla solitudine di un’anziana donna mi accorgo che quella solitudine è anche la mia;

- Se le rinuncie ed i sacrifici che deve fare una famiglia di 4 persone per arrivare a fine mese, rendono anche la mia vita più povera;
- Se il mio impegno è per una maggiore giustizia sociale, per una flessibilità che non sia precarietà, per una uguaglianza non delle condizioni di arrivo, quello mai, ma delle opportunità di partenza per fa si che si esprima il talento e valga il merito.
- Sono di sinistra se il dramma di un uomo, nostro fratello, che lascia la terra natia e rischia la vita per raggiungere queste coste è anche il mio dramma
- Se quel bambino africano che muore di fame perché non ha la sua ciotola di riso o magari è malato, in quel momento è mia figlia, è il mio fratello più piccolo.
E se non mi rassegno a pensare che non sia possibile cambiare questo stato di cose, costruire una società migliore e consegnare definitivamente l’intolleranza e la povertà alla storia.
Se riuscirò ad essere tutto questo potrò orgogliosamente definirmi di sinistra, anche se magari non so di esserlo. E saprò che mentre faccio tutto questo, potrò anche non spiegare come mi chiamo, perché ciò per cui mi batto mi definisce più di ogni altra cosa.
Per questo sento, e mi viene naturale, rivolgermi anche all’elettorato cattolico moderato che può trovare posto nell’esperienza del Partito Democratico. Essendo la mia matrice, per tradizione e cultura, radicata nei cristiano-sociali, dico che, proprio nel PD si può ritrovare quella laicità che vuol dire innanzitutto rifiuto di ogni intolleranza, assenza di pregiudizio, rispetto delle posizioni dell’altro, accoglimento delle verità che esse possono contenere. E proprio perché sento forte il senso del dialogo e del rispetto delle diverse posizioni, cosa per la quale devo necessariamente oggi ringraziare i miei genitori e la mia famiglia, già dai prossimi giorni sarà mio dovere, e mi metto a completa disposizione, iniziare ad istaurare un dialogo con le altre forze politiche. E’ necessario, oggi più mai, parlarsi, anche quando apparentemente le posizioni possono sembrare opposte ed incontrovertibili.
E questo inevitabilmente mi porta a pensare a quanto sta accadendo a livello nazionale. Il governo Prodi è caduto e chiaramente sposo in pieno la posizione di chi vuole tornare alle urne solo dopo aver cambiato questa balorda legge elettorale: scriviamo insieme le regole del gioco poi ognuno giocherà per vincere.
In questo particolare momento bisogna scrivere una nuova storia, ma nuova davvero.
Mi riferisco a quanto è avvenuto ieri. Che dire del Presidente Cuffaro, che finalmente si è deciso a dare le dimissioni. La politica come strumento di potere, che occupa e lottizza, che diventa autoreferenziale è quanto di peggio possa accadere. Non do giudizi morali sulla vicenda, perché credo che fondamentalmente non sia giusto. Tuttavia posso capire chi festeggia al senato con lo champagne alla caduta di Prodi; ma non mi riesce di capire chi festeggia coi cannoli dopo una condanna di 5 anni.
Però il dato politico rimane; la politica disastrosa del suo governo, l’immagine che si dà della Sicilia fuori dai nostri confini deve farci riflettere. Siamo la regione che accredita più cliniche private(1800 contro le 50 della Lombardia) eppure la sanità pubblica è fatiscente. Per non parlare delle infrastrutture e dell’occupazione. Potenzialmente siamo una delle prime regioni d’Italia, non abbiamo nulla da invidiare al nordest. Basti pensare che i guadagni di Cosa Nostra valgono più del doppio di una finanziaria nazionale. Per questo credo che il PD, adesso, con elezioni regionali alle porte, possa essere la valida alternativa a questo sistema di potere, e lo sarà. Politica di legalità e trasparenza, ed avere alla presidenza uno come Lumìa mi rassicura, di risanamento e di speranza.
E questo inevitabilmente non potrà che ripercuotersi in maniera positiva anche nella nostra città, dove da sei mesi governa l’MPA. E così poco è bastato per poter esprimere un giudizio estremamente negativo.
Essendo oggi un partito di opposizione, dovremo lavorare come fin d’ora fatto, con gli altri partiti di minoranza proprio per evitare in futuro ciò che sta accadendo nella nostra città. Stiamo facendo troppi passi indietro, e non ce lo possiamo permettere.
La strada è lunga e non sarà certo priva di ostacoli. Ma con il lavoro di tutti, con la vostra passione, con la vostra voglia, il vostro amore per la città, assieme cambieremo questo stato di cose.
Volevo, consentitemelo in chiusura, ringraziare quanti oggi hanno espresso fiducia verso la mia persona. Volevo ringraziare quanti fino ad oggi hanno vissuto questa splendida avventura; quanti, con gioia, hanno partecipato alla festa democratica del 14 ottobre e non si sono mai tirati indietro. E permettetemi di ringraziare anche quei compagni di viaggio che adesso non condividono con noi questo processo costituente: ho profondo rispetto per la vostra scelta, per il percorso fatto con noi finora e per le battaglie vinte insieme. Spero che in questo grande viaggio, alla fine, ci rincontreremo per continuare a lavorare e crescere insieme. Di questo sono sicuro. Perché non saremo delusi per le cose fatte, ma per quelle che non riusciremo a fare.
Permettemi una citazione, e concludo, senza che il precedende di un Mastella che cita Pablo Neruda possa distrarvi:
Diceva Don Milani: Mi sono accorto che il mio problema è uguale al tuo, sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è la politica!

mercoledì 6 febbraio 2008

“Che cos’è la politica?”


Il primo post del mio blog: non potevo iniziare altrimenti, se non con una lezione magistrale di Walter Veltroni sulla politica. Quando lo presentò a Roma, si avvalse dell'ausilio di immagini, per poi commentarle ed esplicarle in un lungo e ben articolato discorso.
Buona lettura dunque e...cosa è per voi la politica..?



IL GRANDE DITTATORE
Il discorso che avete ascoltato non fu scritto da un uomo politico.
Charlie Chaplin non lo era, ed è straordinario pensare che questo film fu girato nel 1940. La seconda guerra mondiale era scoppiata da poco. Non sapeva, Chaplin, non poteva sapere. Ma aveva capito. Quando la caduta nell’abisso era solo iniziata, quando Auschwitz era solo un nome, e non l’inferno arrivato fin sulla Terra.
Non è un politico nemmeno il personaggio del film che lo pronuncia, questo discorso. E’ un piccolo uomo, un semplice barbiere, ebreo, lontano dalla politica, estraneo al clima di odio e di intolleranza del suo tempo. Ci si trova dentro suo malgrado, all’inizio senza nemmeno comprendere bene.
Un piccolo uomo, preso negli ingranaggi della grande Storia, che da quella tribuna stipata di uomini in divisa, ansiosi di guerra, trova però la forza, d’istinto, quasi d’incanto, di pronunciare parole di fratellanza e di pace universale, di costruire un discorso senza tempo, incastonato di immagini che trasmettono l’essenza della politica, la sua bellezza, gli ideali e la passione che possono animarla, le aspirazioni che possono renderla alta.
E’ vero: parlare di “bellezza” della politica oggi rischia di sembrare non solo irrituale, ma strano, stridente. Oggi, agli occhi dei più, la parola “politica” appare terribilmente consumata. Nei suoi confronti c’è delusione, distacco, se non rifiuto e ostilità.
Ma non è stato sempre così, nel corso delle vicende umane. Al contrario. E se vogliamo provare a domandarci “che cos’è la politica”, dobbiamo partire da qui. Dal fatto che nella storia la politica è stata sempre al centro delle attività degli uomini. Ne ha determinato le condizioni. Ha indirizzato il loro cammino. Ha influito sulle loro sorti.
“Arte regia”, la definiva Platone, che rilesse in questa chiave uno dei miti più celebri di tutta l’antichità greca, il mito di Prometeo. All’origine della storia dell’umanità – dice Platone – Zeus incarica due fratelli, semidei, Prometeo ed Epimeteo, di distribuire a tutte le specie viventi le “qualità” che consentano loro di sopravvivere. A questo compito provvede Epimeteo, che come spiega l’etimologia del suo nome è “colui che vede dopo”, dunque che non coglie le cose con la cura dovuta, con l’attenzione necessaria.
Epimeteo distribuisce le diverse qualità, e cioè la velocità, la forza, le unghie, gli artigli, alle varie specie viventi, dimenticando però gli uomini. A quel punto, esaurita la scorta delle qualità disponibili, interviene Prometeo, che è invece “colui che vede prima”, ed è quindi saggio, avveduto. Prometeo capisce che deve evitare l’estinzione dell’umanità, che senza le qualità necessarie alla sopravvivenza sarebbe stata abbandonata a se stessa, e compie il furto sacrilego, sottrae ad Efesto e ad Atena il fuoco e il “sapere tecnico”, e li dona agli uomini, che così entrano in possesso di ciò che dovrebbe servir loro per scongiurare gli attacchi delle fiere, per sopravvivere.
Ma gli uomini vivono ancora dispersi, senza aggregarsi tra loro. E così restano vulnerabili, continuano a subire aggressioni, e muoiono. Questo accade, continua Platone, perché essi non posseggono ancora l’arte politica, politiké techne. Occorre a questo punto – così si conclude il mito – un intervento straordinario di Zeus, che dona agli uomini pudore e giustizia, consentendo loro di riunirsi e di fondare città, dalle quali scaturisce l’esercizio dell’arte politica.
Ecco dunque la polis, che per i greci è uno spazio sicuro, ordinato e calmo, dove gli uomini possono dedicarsi alla ricerca della felicità. Il politico è colui che si prende cura di questo spazio. La politica è a servizio della felicità degli abitanti della città.
Verranno poi, molto presto e nel corso dei secoli, le durezze della storia. Verrà il peso assunto dalla violenza e dalle guerre nel dirimere i contrasti tra gli uomini e tra i popoli, e le dinamiche del potere nei rapporti tra Stati e sovrani descritte da Machiavelli. E poi ancora verranno i cambiamenti epocali prodotti dalle rivoluzioni dei commerci e delle industrie, quelli provocati dal rovesciamento degli antichi regimi e dalla nascita di nuovi imperi, da restaurazioni e da movimenti nazionali, dalle lotte sociali. Verranno le rivoluzioni, i conflitti mondiali, e le dittature.
In tutto questo la politica sarà sempre più calata, dagli uomini, nella complessità e nelle profondità della storia. Non sarà più patrimonio esclusivo dei nobili, com’era nell’antica Grecia, dove i lavoratori, liberi o schiavi che fossero, ne erano esclusi. Sarà utilizzata a fini di potere, esercitata per mantenere uguali a se stessi gli ordinamenti sociali, ma anche per rovesciarli, o per tentare di farlo. Sarà usata per togliere libertà, ma anche per restituirla. Per opprimere i popoli, ma anche per risollevarli. A volte si eclisserà, perché non c’è vera politica quando è una sola voce a poter parlare, quando è un solo pensiero a dominare, o quando il rumore delle armi sovrasta ogni altra voce.
Ma sempre tornerà a farsi vedere, perché “la politica – come scriveva Hannah Arendt – è la favola di un tesoro antichissimo, che scompare celandosi sotto i più svariati e misteriosi travestimenti, e di nuovo appare all’improvviso nelle circostanze più diverse, come una fata morgana”.
Oggi, quando siamo ancora agli inizi di un secolo che per tanti motivi ci sembra però già così pesante, che cos’è dunque la politica? A che punto siamo di questa “favola” che da oltre due millenni accompagna la vita degli uomini? La politica è scomparsa dietro uno dei suoi travestimenti oppure ha assunto delle sembianze nuove che facciamo fatica a scorgere?
E’ difficile sfuggire alla sensazione che oggi, mentre tutto si muove velocemente, la politica invece sia lenta, impacciata, in ritardo. Non è qualcosa che riguarda solo il nostro Paese, solo noi italiani. E’ qualcosa di più ampio e di più profondo, che interessa tutte le società occidentali, tutte le grandi democrazie contemporanee.
Proviamo a capire, e cominciamo a pensare a quanti cambiamenti hanno investito lo “spazio” della politica, e quindi i suoi confini, le sue forme, le sue chiavi interpretative, persino il suo linguaggio.
Pensiamo solo all’affermarsi di dimensioni più ampie rispetto allo Stato nazionale, che era tradizionalmente la “casa” della politica. Pensiamo al peso assunto da un’economia globalizzata che muove capitali, merci e persone senza incontrare barriere, senza ostacoli in grado di arrestare questo enorme e continuo spostamento. Pensiamo a come è cambiato il volto del pianeta se metà della popolazione mondiale vive ormai in una delle sterminate megalopoli della Terra o in una grande città. Oppure a come sviluppi tecnici e scientifici fino a poco tempo fa impensabili stanno cambiando il nostro modo di lavorare, di mangiare, di curarci, persino di nascere e di morire. E a tutto questo aggiungiamo una comunicazione vorticosa, frenetica, che favorisce il consumo rapidissimo e troppo spesso superficiale delle informazioni, più che un’effettiva conoscenza, più che una sincera consapevolezza.
Non c’è una data, un fatto, un avvenimento, che permetta di dire “tutto è cominciato lì”. C’è però un momento che io credo abbia a che fare, e non poco, con la politica così come la vediamo e la viviamo oggi.

KOHL GORBACIOV – MURO DI BERLINO – TIEN AN MEN
Il rischio, e il coraggio, a volte possono fare la Storia. Sia che appartengano a uno statista, sia che vengano da un semplice uomo, da un ragazzo senza nome che ferma la marcia di una colonna di carri armati, avendo come uniche armi due buste, tenute nelle mani, e il suo desiderio di libertà. Era il 1989. Il 9 novembre di quell’anno finisce la guerra fredda, si chiude il tempo delle grandi contrapposizioni, del mondo diviso in blocchi. Quel giorno, sotto le macerie del Muro di Berlino, restano schiacciate anche le ideologie.
Ideologie che erano una gabbia, che imprigionavano pensiero e libertà, che rendevano nemici gli avversari. Che avevano la pretesa, in nome di fini indiscutibili e di promesse salvifiche, di spiegare il mondo, mentre quel che facevano era piegare i popoli e gli individui. In nome delle ideologie milioni di persone sono state uccise. Ad Auschwitz. Nei gulag staliniani.
Che quel tempo sia finito è un bene. Nessuno può rimpiangerlo. L’Europa oggi è unita. Milioni di persone si sono messe in cammino verso la libertà e la democrazia. Il superamento di quelle fedi assolute ha liberato energie, ha dato forza alle idee e ai valori che animano le culture dell’ambientalismo, del femminismo, dell’interdipendenza, della non-violenza. Che sono nate, non dimentichiamolo, fuori dai recinti delle famiglie politiche tradizionali.
Anche grazie a queste culture, ora la politica è più libera, è più capace, o almeno lo è “potenzialmente”, di avere la concretezza necessaria ad affrontare i problemi senza perdere la giusta e indispensabile carica ideale. Pensiamo solo alla non-violenza, a quanto il suo affermarsi sia condizione essenziale per dare un pieno e democratico valore al conflitto, alla radicalità della critica alla società contemporanea. Che è altro rispetto ai giudizi sbrigativi, o neo-ideologici, che tagliano la storia con l’accetta.
Ma è anche vero che in quel tempo, se pensiamo ad esempio all’Italia, grandi masse di cittadini sono entrate sulla scena politica, hanno contribuito a costruire e a consolidare la nostra democrazia. E’ vero che ci sono stati momenti, nel Novecento, in cui attorno a grandi progetti accadeva si muovessero le energie migliori della società. Ed è vero che grandi passioni, grandi aspirazioni di libertà e di giustizia sociale hanno mosso uomini a spendere se stessi, la propria vita, per dare diritti e dignità a chi senza diritti e senza dignità era sempre stato.

SACCO E VANZETTI
Siamo in un altro secolo, in un’altra epoca. E ci accorgiamo che la corrente della Storia sembra aver trascinato via, e portato a valle, insieme al ferro delle gabbie ideologiche l’argento vivo dei valori, degli ideali, dei pensieri profondi.
Ed è un paradosso: proprio mentre potrebbe ritrovare, insieme alla libertà, tutta la sua “bellezza”, la politica è invece prigioniera dei tempi brevi, è appiattita sull’immediato. E’ come impoverita, smarrita. Ha perso il senso delle grandi visioni e vive, quotidianamente, del farsi e disfarsi di veti e alleanze. Fa fatica a decidere ciò che i cittadini attendono e sperano, venendo meno, così, al suo compito. Perché la decisione richiede delega e responsabilità.
E’ una politica che finisce col preferire, per autoconservazione, la fragilità di un sistema alla chiarezza e alla forza di una democrazia vissuta nell’equilibrio tra un potere di decisione e un potere di controllo. L’uno e l’altro affidati all’unico sovrano, in una democrazia: il popolo che vota. Così la politica si ritrae e finisce per scambiare miopia e presbiopia. Finisce per coltivare l’idea che il potere sia il fine e non il mezzo. Parlo dell’Occidente tutto, dell’evidente crisi dei meccanismi di decisione democratica in una società globalizzata e con un’economia forte.
E’ prova di tutto questo la dipendenza della politica moderna dai sondaggi. Più essi si mostrano fallaci, più ad essi ci si affida. Sono quei numeri a far sapere ai decisori politici cosa pensano i cittadini, come voteranno. Inariditi i rapporti diretti con una società mobile e complessa, ci si affida al valore mediatico di cifre fredde. La politica vera, il tempo lo ha dimostrato, è invece quella di chi sa trasmettere alla comunità il calore di una missione collettiva e sa far sempre prevalere l’interesse generale su ciò che i sondaggi indicano come la momentanea preferenza dei più.
Non abbiate paura, verrebbe da dire. Non abbiate paura di dare il senso di un cammino, non abbiate paura dell’impopolarità di un giorno o di un mese, se fate ciò che ritenete giusto. La politica è “arte regia”, non è una disciplina del marketing. Conta essere, non apparire. Nella vita, non solo nella politica.

IL CANDIDATO
La politica non può essere sola immagine. Non può essere solo “far credere”, conquistare la curiosità delle persone per trasformarla in un consenso semplice, veloce, da prendere al volo e da mantenere quel tanto che basta per arrivare alla prossima scadenza elettorale. Gesti, volti e sorrisi sono parte assolutamente naturale di una politica moderna e senza più, giustamente, l’austera sacralità di un tempo. Ma non sono nulla senza idee, senza convinzioni, senza progetti.
E’ la politica a non essere nulla, se si riduce a pensare ai minuti, e non trova la pazienza di piantare alberi. Un albero impiega anni per crescere. Rende molto di più tagliare quelli che ci sono, farne legna e rivenderli, senza preoccuparsi del resto, senza preoccuparsi degli altri e del domani.
Ma se cadono a precipizio gli ideali, se conta solo l’immediato, è facile che una persona, e soprattutto un giovane che si affaccia al mondo, dica: quello che succede fuori non mi riguarda, e anche se mi interessasse non avrei modo di far nulla. Tanto vale che io mi occupi solo di me stesso, della mia vita privata, dei miei interessi.
Si tratta allora di scendere a valle, e di mettersi al lavoro per separare pazientemente ideologia e valori, le cose che possono restare lì, come sedimento del tempo, e quelle che invece devono essere riportate in alto, in superficie, perché sono preziose, perché servono a ritrovare la strada. Tra queste cose, c’è l’esempio dei grandi uomini che di piantare alberi hanno avuto l’amore e la pazienza. A volte sapendo che alla loro ombra non si sarebbero mai potuti sedere.

MARTIN LUTHER KING (“I HAVE A DREAM”)
Cinque anni dopo questa straordinaria giornata di agosto del 1963, Martin Luther King avrebbe pagato con la vita per queste e per altre parole, per il coraggio del suo impegno, per l’amore e la pazienza con cui lavorò alla realizzazione di quel sogno. Lo avete sentito: è un sogno che non è per oggi, è per domani. “Un giorno”, ripete più volte di fronte all’oceano di persone che lo ascolta. E il sogno non è per sé, è per i suoi quattro figli piccoli, è per chi verrà, è per tutto il popolo afro-americano, per i suoi diritti, per la sua libertà.
La politica è questo. Il suo cuore, la sua bellezza, è qui. E’ dare un senso al presente pensando al futuro. E’ pensare se stessi in relazione agli altri.
“La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini”, scriveva Hannah Arendt. Nasce quando l’uomo esce dal buio della sua singolarità, del suo privato, ed è messo di fronte alla presenza degli altri. Nasce, scriveva, “quando la preoccupazione per la vita individuale è sostituita dall’amore per il mondo comune”. La politica, dunque, è “comunanza tra diversi”. E’ condivisione di idee e progetti che possono cambiare le cose, e a volte fare la Storia.
La Arendt scrisse le sue pagine più intense in un tempo di ferro e di fuoco, di totalitarismi e di guerra. In quel tempo ci furono molti, in Italia e in Europa, che del senso e della moralità che la politica può assumere diedero una dimostrazione concreta, facendo quella scelta che cambiò la loro vita e quella del loro Paese.
Scelsero la Resistenza. Scelsero di battersi contro la dittatura e l’intolleranza, contro l’oppressione che priva della libertà. Animarono, per dirlo con le parole di uno dei padri della nostra Repubblica, “una straordinaria esperienza di gente che decise di non lasciarsi vivere, di non pensare alla vita come una chiusura in se stessi”. E’ un’idea, quella di inserire il proprio cammino, libero e individuale, in un percorso da compiere insieme agli altri, che è sempre stata, ed è ancora oggi, di un uomo straordinario come Vittorio Foa, che a chi gli domandava cosa avrebbe scelto di fare tornando ad avere trent’anni ha risposto con queste parole.

VITTORIO FOA
Cosa c’è di più umile e di più nobile insieme? Non chiudersi, unire i propri passi a quelli di altri. Non pretendere di cambiare il mondo tutto insieme e una volta per tutte, come per anni ci si era tragicamente illusi. No, la politica è “non lasciarsi vivere”. Senza rinunciare ad essere se stessi. Senza tralasciare le emozioni, e nemmeno i propri sentimenti.
La politica è qualcosa che è dentro la vita di ognuno di noi, profondamente intrecciata con i nostri sentimenti. Con la nostra moralità, che non è negazione di ogni soddisfazione individuale, ma è intendere la vita come un’esperienza non solo personale. E’ qualcosa che ha a che fare con la necessità di dare un senso profondo, etico, al nostro agire. Ecco un’altra di quelle cose preziose da riportare in superficie.

GIOVANNI BACHELET – GIORGIO AMBROSOLI
Questa lettera, scritta da Giorgio Ambrosoli il 25 marzo del 1975, e ritrovata per caso dalla moglie Annalori sul tavolo dove suo marito aveva lavorato fin quasi all’alba, è una delle cose più emozionanti e più “alte”, dal punto di vista etico e civile, che io credo sia possibile leggere.
E’ un vero e proprio testamento morale, scritto da un uomo che amava profondamente la sua famiglia e il suo Paese. Un uomo “libero e solo, eroe borghese che avrebbe potuto vivere tranquillo con le sue serene abitudini” e che invece – come ha sottolineato chi su di lui ha scritto le pagine più belle – scelse sempre di farsi guidare dalla “passione dell’onestà”. Un uomo che sentiva di essere, nel senso più nobile della parola, un “servitore” dello Stato, e che in nome della legge e delle istituzioni fu capace di resistere prima alle lusinghe, poi alle pressioni e alle minacce, e fece semplicemente ciò che sentiva di dover fare: portò avanti il suo lavoro. Anche quando si trovò di fronte a un muro fatto di arroganza e di insofferenza ad ogni regola, anche quando si rese conto di come fosse grande e perverso l’intreccio tra affari, corruzione, interessi finanziari e cattiva politica. Rimase fedele alle istituzioni. Rimase fedele a se stesso, alla propria coscienza.
La vita pubblica ha bisogno di questo. Di essere arricchita da ideali, da valori morali. Che la loro fonte sia la fede o siano i principi che nascono da una profonda “religione civile”, non c’è motivo di avere timidezza nel dirlo: dobbiamo reintrodurre l’etica pubblica nella politica.
Avete ascoltato le parole di Martin Luther King, avete sentito quanto fosse grande la radicalità della sua critica e forte la sua domanda di cambiamento. Ma anche nel momento in cui chiede al suo Paese di cambiare profondamente le sue regole e il suo modo di vivere, Martin Luther King è pienamente americano, richiama i suoi valori, evoca i monti e le valli dei diversi stati e dà il senso, anche fisico, di un’appartenenza, dell’essere parte di un’identità.
E’ qualcosa che noi italiani dobbiamo riscoprire in pieno, che le nostre culture politiche devono tutte, senza incertezze e parzialità, assumere definitivamente su di sé: la priorità, su tutto, degli interessi della nazione. C’è qualcosa di profondo e di grande che ci unisce, che crea tra di noi un vincolo di reciprocità, un vincolo di cittadinanza, una “virtù civile”, senza il quale una democrazia non funziona, e un Paese, una comunità, in definitiva non esiste.
Lo scriveva già Rousseau: “Non sono le mura né gli uomini che fanno la patria: sono le leggi, i costumi, le consuetudini, il governo, la costituzione, il modo di essere che ne risulta. La patria è nelle relazioni fra lo Stato e i suoi membri”.
Ecco, oggi forse più di ieri, noi dobbiamo aver chiaro chi siamo e qual è il nostro posto nel mondo. Dobbiamo sapere quali sono i nostri riferimenti, affermare senza equivoci che la democrazia, la libertà, lo Stato di diritto, l’economia di mercato – di un mercato regolato, trasparente e solidale – sono i nostri valori, i valori di un Paese europeo ed occidentale.
Noi siamo quello che siamo. Ognuno di noi viene da una storia, ha una cultura e un modo di vivere, di pensare, di credere. Ognuno di noi ha un’identità. Esserne serenamente consapevoli non è un ostacolo all’apertura verso il mondo, è una possibilità in più, è forse la condizione stessa per riuscire a farlo. E’ partendo da se stessi, da ciò che si è, che si possono aprire cuore e mente alla conoscenza e alla comprensione degli altri.
Avete ascoltato come Vittorio Foa concludeva la sua riflessione, con quel bellissimo “non so”. Ecco cos’altro è che alimenta la politica, che la riempie, che la rende affascinante, appassionante: scegliere di farsi accompagnare dal dubbio, dalla curiosità. Dalla voglia di cercare, di “viaggiare”, e di incontrare gli altri, le loro ragioni.
“Se vuoi costruire una nave”, scriveva Antoine de Saint-Exupery, “non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.
E una volta iniziato il viaggio, indispensabile è non pensare che una volta raggiunto un porto non resti altro che gettare l’ancora, ammainare le vele e restar fermi. E non credere che tutto si risolva in un approdo già stabilito in partenza. A contare è il viaggio in sé, ed è la navigazione il vero modo per capire, per adeguare la rotta e la ricerca, per arrivare.
Pensiamo a come può cambiare il significato dei nostri comportamenti. Pensiamo al termine “conservare”. Se lo riferiamo alle condizioni del pianeta, alla pesantezza della mano dell’uomo sull’ambiente, alle risorse naturali dilapidate da uno sviluppo che da tempo non è più sostenibile, ecco che quello che è sempre stato un elemento statico, “conservare”, diventa invece un concetto positivo, innovativo. Diventa, per la politica, un valore.
Oppure pensiamo a tutte le scoperte scientifiche che stanno producendo cambiamenti ancora più travolgenti di quelli seguiti alle scoperte della fisica nucleare negli anni ‘40 o alla diffusione della microelettronica negli anni ‘80 del secolo scorso. Pensiamo alle loro conseguenze su tutto ciò che ha a che fare con la vita umana, con il suo inizio e la sua fine. Pensiamo all’eutanasia, al rapporto tra morale e scienza, alla bioetica, ai meccanismi di differenziazione cellulare decisivi per la comprensione e la cura di molte malattie.
Le domande che vengono in mente, allora, sono diverse. Si possono accostare alla politica parole come dubbio, ricerca, etica, o la modernità in cui siamo immersi richiede solo altro? Oppure, per andare su una strada già percorsa, si può ancora dire che è per “vocazione” che si sceglie la politica? O invece stiamo parlando di una semplice professione, che si intraprende del tutto razionalmente?
Prendiamo la celebre lezione di Max Weber su “La politica come professione”. Weber diceva che la passione, insieme alla responsabilità e alla lungimiranza, non può non animare l’uomo politico, e che poi sta a lui riuscire a controllare questa passione, facendosene spingere ma non fuorviare. Weber stesso, però, non aveva timore a parlare di “vocazione”. Diceva che “etica della convinzione ed etica della responsabilità si completano a vicenda, e solo congiunte formano il vero uomo, quello che può avere vocazione alla politica”.

ZACCAGNINI E BERLINGUER
Ci possono essere politici più “di professione” dei segretari di due partiti come la Dc e il Pci di allora? Sulla carta no, non c’è dubbio. Eppure Benigno Zaccagnini ed Enrico Berlinguer non erano percepiti così dagli italiani. E il perché era nel loro modo di essere, era nei loro volti, nelle loro parole. Li avete visti. Le avete ascoltate. Berlinguer e Zaccagnini avevano una moralità, erano animati da una passione e da una onestà intellettuale che non faceva dubitare della loro vocazione, di quale fosse l’idea della politica che li animava. Credevano in quello che dicevano, e chiunque li ascoltasse lo capiva, e li rispettava.
Allora se scendiamo ancora a valle, e guardiamo con attenzione, vediamo che ci sono subito almeno altre due qualità della politica da recuperare e da far risaltare. La prima è la capacità di essere “popolare”, di essere legata ai sentimenti e alle aspirazioni delle persone, di saper catturare e interpretare almeno un po’ della complessità della loro esistenza.
Guardate, non c’è politica senza valori, senza programmi, senza condivisione. Put the people first: le persone al primo posto. Le loro ansie da condividere, i loro problemi da risolvere, le loro speranze da confortare.
Questa è la cosa importante. Questa è la politica. E’ l’idea del governo delle cose per aiutare la gente. E’ attenzione alle disuguaglianze, agli “strappi” che si creano nella società e che devono essere ricuciti, sostenendo chi è in difficoltà, proteggendo chi non ce la fa da solo, promuovendo la responsabile assunzione del proprio destino da parte di chi è in grado di procedere da sé, avendone l’opportunità.
La politica è l’applicazione concreta di quel principio: le persone al primo posto.

BARACK OBAMA
La politica, lo avete sentito, non deve mai dimenticare che “siamo tutti collegati come se fossimo un’unica persona”. Deve saper condividere il disagio. Deve stare in mezzo ai problemi degli individui, e cercare le soluzioni.
Non è altra cosa da noi, lo sconforto di una persona anziana non autosufficiente che non sa cosa scegliere, cosa fare con la sua pensione: pagare le medicine che le servono oppure la badante che la accudisce, che il più delle volte è immigrata, e spesso è costretta a non essere in regola. Non è altra cosa da noi, la preoccupazione di un ragazzo che termina gli studi, che si affaccia nel campo del lavoro, e si rende conto che i destini dei singoli continuano a dipendere poco dal talento e dalle capacità, e troppo dal posto che, per così dire, si è avuto “in eredità” nella società.
Senza la serenità che viene dall’avere un lavoro, dall’essere autonoma economicamente, una persona non solo vive nel disagio: è meno libera, è colpita nella sua individualità, nella sua stessa dignità. Lo scriveva Carlo Rosselli: la libertà non accompagnata da autonomia economica “non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria. Libero di diritto, è servo di fatto”.
La politica da tutto questo non può essere distante. La politica o è “intrecciata” con il popolo o non è.
Perché può darsi che oggi, più di ieri, siano le persone affrancate dal bisogno, e quindi più libere. Ma è vero che il bisogno di giustizia sociale non potrà mai dirsi del tutto soddisfatto. Ed è vero anche che più di ieri, nelle nostre società complesse, c’è bisogno di far coesistere il principio di universalità, che vuole tutte le donne e tutti gli uomini uguali nel godimento delle libertà fondamentali, con il principio di differenza, con il riconoscimento e la protezione delle diversità tra gli individui, e con la rimozione di quelle disuguaglianze che ne impediscono il libero dispiegarsi.
Come a dire che sì, gli uomini non hanno uguali caratteri e uguali obiettivi, ma devono avere uguali probabilità di dar prova del loro carattere e delle loro capacità di raggiungere i loro obiettivi. Devono avere la possibilità di manifestare tutto il loro talento. Devono poter essere, e questa è la frontiera ideale che oggi abbiamo davanti a noi, “persone egualmente libere”.
E’ una sfida che oggi è forse più difficile di ieri. Anche perché la condizione materiale nella quale viviamo non ci porta, come accadeva un tempo, a scegliere quasi spontaneamente la via della solidarietà. Quando il lavoro era una catena, alla quale erano attaccate migliaia di braccia, tutte ugualmente costrette allo stesso sforzo, era più facile capire il valore della solidarietà. Anche se metterlo in pratica, tradurlo in lotta per l’uguaglianza, poteva costare tanto, talvolta perfino la vita.
Oggi quella catena c’è ancora. Ma si è fatta invisibile. E’ diventata immateriale, anche se non per questo meno pesante e robusta. Lega ancora tra loro migliaia, qualche volta milioni, di lavoratori. Ma lo fa in modo più sottile, più subdolo, così che ciascuno pensa di essere più libero, mentre in effetti spesso è soltanto più solo, ed è costretto all’incertezza, alla precarietà.
Accade soprattutto ai giovani. Le nostre generazioni, infatti, erano abituate a contare su alcune certezze, sapevano che la vita era scandita da fasi fondamentali che riservavano ovviamente soddisfazioni come difficoltà, ma che erano quelle: lo studio, il posto di lavoro fisso, la pensione. Oggi cos’è la vita di un ragazzo? Finiti gli studi, magari presa una laurea, potrà avere buone opportunità, ma è più facile che dovrà andare avanti con contratti di pochi mesi, e forse sperare nel sostegno economico dei genitori. Non solo la sua pensione sarà un miraggio, se non può permettersi un’assicurazione privata, ma nell’immediato non potrà nemmeno pensare a una casa, a metter su famiglia, ad avere figli.
In una società moderna, nuovi lavori e nuovi diritti possono e devono coesistere. In una società moderna, dinamica e aperta come mai era stato in passato, compito della politica è dissolvere quanto più possibile l’insicurezza, e permettere che a prendere il suo posto siano le garanzie, le capacità, il talento, le idee innovative. La libertà: perché modernità e sviluppo fanno tutt’uno con l’espansione della libertà.
C’è una contraddizione sempre più evidente fra ampliamento delle possibilità individuali di scelta e regolamentazioni rigide, burocratiche, delle risposte collettive.
Una politica piccola è quella che per timore o per ansia di controllo, per i suoi veti e le sue difficoltà, finisce per essere prigioniera di forme barocche e per diventare a sua volta prigione.
Una politica piccola fa la società complicata. Una politica grande fa la società semplice.
Una politica grande è quella sa liberare idee, energie, risorse. Quella che sa sburocratizzare, semplificare, razionalizzare, disegnare regole certe ed eliminare le croste di dirigismo, liberalizzare l’accesso ai mercati e al lavoro. E’ quella che sa riconoscere e accompagnare la capacità di intraprendere, che sa camminare insieme alle componenti più dinamiche della società, alle imprese che sono il cuore del sistema produttivo di un Paese capace di accettare la sfida della competizione mondiale e a tutti quei settori che sono il centro dell’innovazione, della qualità, del futuro.
La società moderna è una società fluida, frammentata, senza più quei centri “fissi” che erano i luoghi di lavoro di un tempo, senza più quella netta suddivisione in classi, con una mobilità sociale che fa giustamente parlare di una “società degli individui”.
E in un certo qual modo il simbolo di questo è Internet, è la Rete, luogo per sua stessa natura fluido, mobile. Luogo di opportunità e di diffusione di idee e conoscenze. Luogo che costituisce la più grande e formidabile rivoluzione del nostro tempo.
Dalla Rete giungono, alla politica, persino dei suggerimenti, delle chiavi di comprensione. Del fatto, ad esempio, che la società non è più strutturata in base ad appartenenze politico-ideologiche forti, e che di questo sono un riflesso anche le competizioni elettorali.
Una politica grande deve essere veloce e aperta come la società, e deve coltivare l’ambizione di conquistare non le “casematte” degli interessi particolari, la cui conservazione finisce per generare staticità, ma il “mare aperto” di un’opinione pubblica nella quale convivono condizioni sociali diverse nel corso di una stessa vita, nella quale abitano più dubbi che certezze, più disponibilità che identità blindate.
Insomma, la politica deve saper parlare a tutti e in forme anche nuove, respingendo i rischi di divisione e di scollamento del tessuto sociale, moltiplicando le opportunità, e indicando il senso di marcia, offrendo una visione, una prospettiva. Se necessario, nei momenti più bui, regalando una speranza.

DE GASPERI (CONFERENZA DI PACE) – CRAXI (SIGONELLA)
Avete visto la fermezza e l’autonomia con cui Craxi, in una delicata crisi internazionale come quella dell’ottobre 1985, della nave “Achille Lauro”, della base militare di Sigonella, difende come Presidente del Consiglio il principio della nostra sovranità nazionale e gli interessi italiani di fronte alle richieste degli Stati Uniti.
E prima avete ascoltato le parole con cui Alcide De Gasperi si rivolge al mondo appena uscito dalla guerra e riunito a Parigi, in quella Conferenza di Pace. De Gasperi sa bene qual è la condizione in cui l’Italia si trova, e sa in che modo all’Italia si guarda. “Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”, dice.
Ma la grandezza dello statista, e in quel momento della politica, è nel modo in cui De Gasperi interpreta la coscienza del Paese e tutela la dignità del popolo italiano, parlando a nome di tutti, parlando – non lo avete sentito, ma è proprio all’inizio del discorso – “come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica, che armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate”.
Il secolo scorso, pur con le sue contraddizioni e i suoi orrori, aveva in sé l’idea positiva del progresso. Guardare avanti, per le generazioni che hanno preceduto la nostra, significava comunque immaginare un mondo e una società migliori. Magari con difficoltà e ostacoli da superare lungo il cammino, ma nel medio e lungo periodo migliori.
Oggi noi viviamo, invece, in una sorta di “età dell’ansia”, nella quale avevamo fatto ingresso anche prima dell’11 settembre, prima che la minaccia del terrorismo internazionale avvolgesse le nostre vite. Siamo immersi nella dimensione dell’insicurezza. E’ la “solitudine del cittadino globale” di cui parla Bauman, che descrive le persone “come i passeggeri di un aereo che si accorgono che la cabina di pilotaggio è vuota, e che la voce rassicurante del capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima”. Di qui, se vogliamo continuare in questa immagine, la ricerca esclusiva del proprio paracadute, della propria salvezza senza pensare a quella degli altri, la chiusura particolaristica, l’innalzare muri contro tutto ciò che non si conosce, che potrebbe comportare un pericolo.
E’ una politica piccola, quella che cerca facili scorciatoie, quella di chi solleticando queste paure, le debolezze delle persone, divide tutto in bianco o nero, in bene o male, in amico o nemico, dove il nemico è sempre l’estraneo.
La “bellezza” della politica, di una politica “alta”, appare quando si riesce a tenere insieme concretezza e valori, ragione e passione.
Lo spiegava già Tocqueville: nella politica, diceva, ci sono due parti, “una fissa e l’altra mobile”. La prima è quella delle grandi teorie, delle leggi generali, dei bisogni permanenti dell’umanità. La seconda è quella pratica, dell’esercizio del governo e della lotta contro le difficoltà di tutti i giorni. Bisogna fare in modo che queste due parti non si separino mai. Perché senza le visioni della prima, senza gli ideali, si rischia di procedere a tentoni. E senza la duttilità della seconda, senza la capacità di concretezza, non si fa molta strada.
Nel corso della storia uomini che hanno saputo fare così, esperienze che hanno significato questo, ce ne sono state. Un decennio del secolo scorso, in particolare, si era aperto con grandi speranze, con un grande sogno.

JOHN KENNEDY
Un’intera generazione fu pronta a seguire queste parole, figlie di una visione che era unione di realismo e di idealismo, di decisioni pratiche e di ambiziose aspirazioni. Era una politica che indicava delle possibilità concrete e mostrava una meta, una frontiera da raggiungere, e lo faceva trasmettendo speranza, fiducia, persino gioia di vivere.
Era la generazione che aveva di fronte a sé grandi sfide: per prima quella di allontanare dall’umanità i rischi terribili di un conflitto nucleare, perché è vero che l’uomo ebbe per la prima volta “nelle sue mani di mortale la capacità di abolire tutte le forme di miseria umana e tutte le forme di vita umana”. E poi le altre: sollevare i popoli oppressi dal peso del neocolonialismo, estirpare la discriminazione razziale, liberare la società da quelle strutture che impedivano il pieno dispiegarsi dei diritti di ogni individuo.
Sono passati quarant’anni. Tutto è cambiato. Ma davanti a noi ci sono sfide che non sono più piccole di quelle di allora.

BETANCOURT – MANDELA – MENCHU’
Dare voce e diritti a chi è sottomesso, calpestato, sfruttato, vilipeso. A chi ha meno ricchezza e meno potere, talvolta né ricchezza, né potere. Scegliere uno sviluppo che abbia coscienza dei limiti delle risorse naturali. Ridurre le enormi disuguaglianze che separano tra loro le donne e gli uomini del nostro tempo come uno scandalo intollerabile. Vincere la fame, la malattia, l’ignoranza. Sconfiggere l’Aids, porre fine a una tragedia senza precedenti, che ha già provocato 28 milioni di vittime. Che fa morire, nel mondo e in Africa molto più che altrove, un bambino ogni minuto. Non sono numeri, ma esseri umani. Carne e ossa come le nostre.
Oggi sappiamo che è possibile cambiare l’inaccettabile. E’ un compito enorme, storico, ma è possibile. E io vorrei dire che se anche non lo fosse, la politica, se vuole appassionare e coinvolgere, se vuole ritrovare senso e nuove motivazioni, deve a volte sognare, e far sognare, ciò che sembra impossibile. Perché è vero quel che diceva proprio Weber, e cioè che “è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.
E mentre porta la mente e il cuore a sognare l’impossibile, la politica deve anche capire dove il terreno è più solido, dove è possibile poggiare i piedi, uno dopo l’altro, un passo alla volta, per avanzare lungo il cammino.

GANDHI
Per generazioni di indiani prima di Gandhi, e così per coloro che lo ascoltavano, e riponevano in lui speranza e fiducia, furono sicuramente molti i momenti, e molti i motivi, per credere che libertà e indipendenza non sarebbero mai arrivati. E invece è stato così. Anche sconfiggere l’apartheid, e prima ancora la schiavitù, sembrava impossibile. E invece è stato così.
Così dovrà essere, domani, per la povertà. Ci sono gli strumenti, ci sono le risorse. Quel che serve è la volontà, che non arriverà se a spingerla non saranno la passione e la ragione. Il realismo. Perché non si tratta solo di umanità, solo di giustizia. Nessuno, da questa parte del mondo, ricca e fortunata, può farsi illusioni. Non possiamo pensare di vivere all’infinito seduti sul nostro ramo rigoglioso mentre le condizioni dell’intera pianta dell’umanità continuano a peggiorare.

Passione e ragione, dunque. Valori e concretezza. A dare ali a una politica che per tornare a volare ha bisogno esattamente di questo: di un idealismo pragmatico.
E a questo proposito vorrei concludere con una storia, presa in prestito da un filosofo, Remo Bodei, che l’ha raccontata qualche tempo fa.
Siamo nel 1933, l’anno dell’ascesa al potere di Adolf Hitler. A Berlino, in un Palazzo dello Sport gremito, si svolge un dibattito fra un rappresentante del Partito comunista tedesco, ancora non disciolto, e un rappresentante del Partito nazionalsocialista.
Il primo, di fronte a una platea formata da molti operai socialdemocratici e comunisti, comincia a illustrare il principio della caduta tendenziale del profitto secondo Il Capitale di Marx. Dice cose interessanti, lo fa in modo ineccepibile, ma è decisamente pedante. E’ come se trovandosi di fronte un assetato, invece di dargli l’acqua, gli leggesse l’etichetta della bottiglia, soffermandosi sulla composizione chimica del contenuto.
L’oratore nazista, invece, parla con foga, usa argomenti irrazionali, come quelli della famosa “pugnalata alle spalle” che avrebbe fatto perdere alla Germania la prima guerra mondiale o dell’altrettanto famoso strapotere occulto, con relativo complotto internazionale, degli ebrei. Però attira l’attenzione, è coinvolgente, conquista chi lo ascolta e viene portato in tripudio da quegli operai che erano arrivati al Palazzo dello Sport parteggiando per l’altro uomo politico.
Questo episodio serve a ribadire due cose. Che un’idea, una politica, da sola non cammina. E che le passioni non possono, a lungo, fare a meno di argomentazioni e prove. Da una parte, dunque, nessun programma può avanzare solo perché ragionevole ed efficace. Ha bisogno di essere accompagnato da una visione, deve saper rispondere a quella domanda di senso che ogni società porta sempre con sé. Dall’altra parte, invece, passioni senza verità – in questo caso addirittura aberranti – finiscono per essere parole vuote, rischiano di essere semplice propaganda senza argomenti, e con il tempo vengono portate via dal procedere della storia.
E’ qualcosa di simile all’antica saggezza che faceva dire al profeta di Kahlil Gibran, rispondendo alla sacerdotessa che lo interrogava, che la ragione e la passione sono, per chi deve affrontare la navigazione, come il timone e la vela: senza il primo non si governerebbe la direzione, senza la seconda si rimarrebbe fermi.

“BOBBY”
Abbiamo bisogno di ritrovare la passione per la politica. Di riscoprirne la bellezza, e insieme il suo essere lo strumento più alto e nobile di cui gli uomini concretamente dispongono per tracciare il loro cammino, se saranno capaci di restituirle la saggezza, il pudore e il senso di giustizia di cui parlava Platone. Abbiamo bisogno di stare con i piedi ben piantati in terra, e insieme di tornare a sognare. Anche quel che sembra impossibile, irraggiungibile. Quel che sembra utopia.
Il perché ce lo ha spiegato un grande scrittore sudamericano, attento alle cose della vita e del mondo. “Lei sta all’orizzonte”, ha scritto Eduardo Galeano. “Mi avvicino due passi, lei si allontana due passi. Cammino dieci passi, e l’orizzonte si allontana dieci passi più in là. Per molto che io cammini, mai la raggiungerò. A che serve l‘Utopia? A questo serve: a camminare.